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Nel Seicento lucano ci furono l’avventuriero Tommaso
Stigliani e il problematico Giovan Battista De Luca, incerto fra la toga
e la porpora. Ci fu anche il predicatore-missionario, preoccupato,
usando toni forti, di ricondurre il popolo alla moralità dei costumi.
Tale fu Padre Serafino, nato a Salandra nel 1595 e fattosi frate
francescano. Probabilmente il suo noviziato lo ebbe nello stesso paese
natale, dove esisteva, sin dal 1573, un monastero francescano, gestito
dai Padri Riformati. Dovette presto brillare per intelligenza, cultura e
forza oratoria, se è vero, come è vero, che fu spesso in giro per
prediche, tra Cosenza, Potenza, Matera e Napoli. Nel 1639 era a Napoli,
ove potrebbe aver conosciuto l’inglese John Milton, l’autore del
Paradiso perduto, simile, sotto molti aspetti, al suo Adamo caduto. Nel
1644, a Miglionico, veniva eletto “deffinitore” dell’ordine dei
Riformati per tutta la provincia di Lucania-Basilicata; nel 1647, a
Potenza, diventava custode della stessa. Nello stesso 1647 pubblicava la
tragedia Adamo caduto. Nel 1656 moriva di peste a Napoli.
Anche se Padre Serafino dice di aver scritto un’altra opera – Venere
pudica e martire della città di Locri, adesso Gerace -, di fatto di lui
si conosce solo la tragedia, che, in 5 atti, comprende ben 7.217 versi.
Come dice il titolo, il tema, assai caro al Seicento, è quello di Adamo
caduto, cioè del peccato originale e della cacciata di Adamo ed Eva dal
Paradiso terrestre. Era tema caro alla Controriforma e alla Chiesa del
Seicento, perché, a parte il senso drammatico della vicenda, esso era
idoneo a ravvivare il senso di colpa e a diffondere una visione fosca
della vita e della storia. Induceva anche a considerare sotto luce
negativa tutto quanto piace al mondo, dei cui beni si sottolineavano la
provvisorietà e la fugacità. Forte, perciò, era il senso del dolore
umano, segnato da fame, sete, pestilenze, guerre e, in fine, morte. Per
converso, su tale mondo di peccato e di miserie umane, alta splendeva la
misericordia di Dio, che, soprattutto per intercessione della Vergine
Madre, spingeva il Padre a mandare il Figlio sulla terra e a ridare la
salvezza all’uomo.
La tragedia, scritta in stile barocco, assumeva tutti i caratteri della
“visione” medievale, con molti personaggi simbolici e astratti, divisi
su due fronti: da una parte il bene, dall’altra il male. Su un fronte
combattevano le Virtù, su quello opposto erano i Vizi; da una parte si
schieravano gli Angeli, dall’altra i diavoli. Al centro era Adamo con il
suo libero arbitrio, piegato al peccato dalla fragile e falsa Eva,
pronta ad ascoltare le Sirene del piacere fisico, che diventava uno
strumento di seduzione nei confronti dell’uomo. Tra i peccati più
irresistibili e sconci, infatti, è la Lussuria, “lezzosa e sporca”, che
induce a “l’atto indegno di Venere”. Ad essa, per senso dello sporco e
dell’indecenza, è assimilabile solo la Gola. Di conseguenza la donna,
vista come strumento di peccato, è indicata al disprezzo dell’uomo.
Forti, perciò, sono le note di antifemminismo. Della donna si condanna
l’aspirazione ad essere pari all’uomo. Quando la donna si pone sullo
stesso piano dell’uomo, osserva Padre Serafino, si precipita insieme nel
baratro, perché vincono la bugia, il trucco, il denaro e, naturalmente,
la lascivia. Di precipizio in precipizio, nascono i furti, i tradimenti,
i fratricidi e le guerre.
La tragedia, in cui trionfano le lettere maiuscole, non è di facile
rappresentazione, come, di fatto, non lo è molto teatro del Seicento,
tutto giocato sull’allegorico, sull’astratto e sul simbolico, oltre che
su tirate sempre ad alta tensione. Era tuttavia funzionale ai tempi e al
bisogno di impressionare e terrorizzare, secondo una dualistica, se non
manichea, concezione del mondo e della storia. Bisognava fuggire la
terra, se si voleva salire in cielo. Questo era il tono delle prediche
del tonante Padre Serafino da Salandra. E tutta una predica risultò
essere la sua tragedia, che, perciò, si fa interessante solo per alcuni
passaggi che entrano nella psicologia umana, o propongono il tormento
del dubbio, o alludono a condizioni sociali che furono del tempo.